Tutto diventa più relativo che mai quando Peter Doherty, per gli amici Pete, si affaccia da queste parti. Innanzitutto perché nel bene o nel male, tanto o poco che sia, se ne parla sempre. “Ti ricordi quella volta del Piper? Quando scappò dai paparazzi fermando un tipo in motorino…” – “E chi se lo scorda! Quello era un amico mio.” – “Sì però è uno stronzo, io sto ancora rosicando per quella volta che non si presentò all’Atlantico con i Babyshambles” ecc. ecc. In fila prima di entrare c’è chi ha portato una chitarra da farsi autografare ed intanto strimpella i pezzi dei Libertines, chi invece tira fuori questi e tanti altri aneddoti che trasudano quell’imprevedibilità tipica di chi vive oscillando perpetuamente tra genio e follia. Nulla è mai scontato, nulla è banale, nulla percepito nello stesso modo da tutti. C’è chi lo vede come un poeta, chi come l’ultima rockstar autentica vivente, chi come un povero tossico, nonché un mediocre musicista o chi soltanto come quello che inspiegabilmente è stato fidanzato per un po’ di tempo con Kate Moss. Ognuno possiede la sua verità. Nemmeno gli occhi raccontano la medesima storia per tutti, lo vedi passare e puoi sentire chi dice “madonna come s’è ridotto” e chi invece lo considera “tornato in forma”. Pete è, che lo si voglia o no, l’artista che in un modo o nell’altro ha fatto più parlare di sé degli ultimi quindici anni. Alla fine non si è ben capito se questo concerto dovesse essere di Doherty solista o con i Puta Madres, la sua nuova band, ovviamente si rincorrono già voci di ogni tipo, ma visto che non c’è nulla di confermato ufficialmente non stiamo qui a perdere tempo con spifferi e gossip, anche perché parliamoci chiaro, il disco dei Puta Madres era carino, però niente di indimenticabile o essenziale, la gente qui vuole solo Pete. E Pete avrà, ma anche questo non è mai da dare per scontato. Prima del piatto forte ci sono tre gruppi di apertura, White Def e Red Bricks Foundation risultano frizzanti ed aggressivi, specialmente i secondi, galvanizzati dall’esperienza ad X-Factor, peccano tuttavia un po’ in originalità, tendendo spesso a ricordare un po’ troppo rispettivamente i Libertines e gli Arctic Monkeys. Va meglio Vanbasten che, oltre a questo nome d’arte che calcisticamente rievoca magia, propone con grande personalità un’interessante ibrido new wave – pop – cantautorale, che trova nel pubblico una risposta tutt’altro che indifferente, anzi, decisamente convincente. Ne sentiremo parlare. I tempi sono maturi, pure troppo, tra le tante band di supporto, i ritardi, ecc. si è fatto un po’ tardi, ma è venerdì e quando l’eroe di Albion compare sul palco con la maglia della nazionale italiana dei mondiali del ’90, il pubblico esplode. Gli ingredienti sono Pete, una chitarra acustica, un microfono ed i cuori dei presenti, che le cantano tutte o poco ci manca, tra hit e chicche di tutti i repertori che hanno visto coinvolto il cantautore inglese, dai Libertines ai Babyshambles, passando per i brani da solista e qualche cover, come il grande classico di Wolfman “For Lovers”. A nessuno importa di eventuali stecche, cali di voce, è tutto piuttosto ininfluente in questo clima da falò sulla spiaggia, tutti insieme al proprio idolo che ad un certo punto, dopo un’ora di concerto, si prende 5/10 minuti di pausa e poi quando torna sul palco va in modalità “on demand” chiedendo ai fan nelle prime file quali canzoni desiderino ascoltare e sforna altri 40 minuti di concerto. Un’esperienza intima, a suo modo unica, come sempre, nessuna è mai uguale ad un’altra, nulla appartiene ad uno standard, non esistono cliché, perché Pete Doherty è un artigiano che fa sembrare tutti gli altri musicisti degli impiegati.
Niccolò Matteucci
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